Monogamia: è davvero l’unica soluzione?

Uno dei costrutti sociali meno indagati nella nostra cultura è la monogamia. Il fatto che le persone siano monogame è quasi sempre una considerazione consolidata come ovvia, sia in psicologia che nella cultura generale.

DiversЗ autorЗ hanno evidenziato come, nelle culture occidentali odierne, la monogamia sia uno degli aspetti considerati più normali e ideali nella sessualità umana.

La monogamia nella nostra cultura è percepita come perenne e naturale, tuttavia, una rapida rassegna della storia indica che questo stile relazionale è un fenomeno piuttosto recente. Osservando le diverse culture nel mondo nei vari periodi storici emerge infatti che le pratiche monogame in realtà non sono la norma ma un’eccezione. Nonostante ciò, la monogamia non solo viene considerata come normale, ma anche una scelta di tipo ottimale.  

Anche in ambito psicologico molte prospettive implicano, più o meno esplicitamente, che le relazioni monogame siano lo standard o l’ideale. Queste convinzioni permangono nonostante i tassi di tradimento in relazioni definite monogame si attestino tra il 60 e il 70 per cento. 

Tra gli stili relazionali diversi dalla monogamia vi sono le non-monogamie consensuali, che identificano l’insieme delle forme in cui è presente un accordo per cui lЗ partner definiscono accettabile avere più di una relazione sessuale o romantica contemporaneamente.

Ricerche recenti indicano che le relazioni non-monogame consensuali sono una categoria eterogenea, che include una serie di accordi di relazione relativi a: vari tipi di rapporti intrapresi, gradi di trasparenza nella condivisione, termini specifici di condotta concordati o la loro mancanza.

Uno degli elementi che ha il potenziale di impattare negativamente sul modo in cui viene considerato questo gruppo di stili relazionali è la mononormatività.

Pieper e Bauer nel 2005 hanno coniato il termine mononormatività per indicare il sistema di credenze che stabilisce la coppia monogama (ed eterosessuale) come naturale, ottimale e moralmente più elevata. La conseguenza è una stigmatizzazione delle alternative non-monogame che vengono percepite come innaturali, disfunzionali o addirittura perverse.

Alcuni dei bias mononormativi presenti a livello culturale sono ad esempio l’ideale dell’anima gemella, il vero amore, l’idea che l’esclusività sessuale sia una misura dell’impegno relazionale, la credenza che avere unǝ singolǝ partner sessuale e romanticǝ sia una scelta matura. L’influenza di questo tipo di credenze mononormative ha il potenziale di impattare negativamente sul benessere delle persone che si riconoscono come non-monogame consensuali, privilegiando involontariamente le relazioni monogame rispetto ad altri stili relazionali e stigmatizzando di conseguenza i gruppi sociali associati alla pratica delle non-monogamie.

Le indagini sulla percezione delle relazioni monogame in confronto alle relazioni non-monogame confermano questa influenza, evidenziando che le relazioni monogame vengono percepite come più impegnate, passionali, degne di fiducia e sessualmente soddisfacenti.

Secondo una ricerca di Kolmes e colleghЗ del 2006 si può ragionevolmente sostenere che le persone non-monogame soffrano a tutti gli effetti di pregiudizi, incomprensioni ed emarginazione talvolta maggiori rispetto alle persone appartenenti ad altre minoranze LGBTQIA+.

Alla luce di questi dati sembrerebbe sensato chiedersi se non possa essere utile promuovere la validità di altri stili relazionali. In primo luogo per ridurre il pregiudizio negativo e la stigmatizzazione; in secondo luogo perchè, secondo le ricerche, le relazioni non-monogame consensuali risultano essere di fatto funzionali e soddisfacenti. Ad oggi mancano prove della superiorità della monogamia, in particolare per quanto concerne l’adattamento relazionale, i benefici sessuali, la salute sessuale e i benefici per lЗ bambinЗ. Eppure difficilmente, sia nella pratica clinica sia a livello culturale, si promuovono stili relazionali alternativi alla monogamia.

Il percorso verso la riduzione della mononormatività nella pratica clinica e sessuologica in Italia è ancora lungo. Il primo passo è sicuramente l’ampliamento della ricerca sul tema, a partire dalle indagini sulla prevalenza degli stili relazionali non-monogami, di cui ancora non disponiamo.

Un’approccio inclusivo alle relazioni non-monogame consensuali passa in primo luogo attraverso l’acquisizione di una profonda consapevolezza rispetto alle proprie credenze e ai propri pregiudizi, ottenibile considerando non solo gli aspetti individuali, ma anche gli aspetti socioculturali e politici che co-occorrono nella costruzione delle rappresentazioni su ciò che viene considerato “sano e normale”, sia nellǝ professionista che nellЗ clientЗ. 

L’assenza di occasioni formative specialistiche nei percorsi di studi in ambito psicologico e sessuologico è un elemento critico che rischia di mantenere e reiterare assunzioni e bias normativi inconsapevoli, nonostante la volontà da parte dellǝ professionista di porsi in modalità non giudicanti.

L’assenza di proposte formative sufficienti impatta negativamente sul benessere psicologico dellЗ clienti non-monogamЗ stessЗ, che si trovano tutt’ora a incorrere in microaggressioni e discriminazioni anche all’interno dello spazio clinico.

Questo articolo ha voluto evidenziare alcune delle principali tematiche emerse dalla ricerca in relazione alla mononormatività, nella speranza di proporre spunti di riflessione utili per ampliare le proprie conoscenze sul tema e avvicinarsi al tema delle relazioni non-monogame consensuali con uno sguardo non giudicante e attento alla convivenza delle diversità.

Letture consigliate

  • Fern, J. (2020). Polysecure: Attachment, trauma and consensual nonmonogamy. Thorntree Press LLC. (in inglese)
  • Le guide Step by Step di @sessuologia. Oltre la coppia monogama: poliamore e fluidità relazionale. https://sessuologia.store/products/guida-poliamore
  • Barker, M. J., & Iantaffi, A. (2019). Life isn’t binary. Jessica Kingsley Publishers. (in inglese)

Bibliografia

  • Barker, M., & Langdridge, D. (2010). Understanding non-monogamies. New York, NY: Routledge.
  • Conley, T. D., Matsick, J. L., Moors, A. C., & Ziegler, A. (2017). Investigation of consensually nonmonogamous relationships: Theories, methods, and new directions. Perspectives on Psychological Science, 12(2), 205-232.
  • Conley, T. D., Moors, A. C., Matsick, J. L., & Ziegler, A. (2013). The fewer the merrier?: Assessing stigma surrounding consensually non-monogamous romantic relationships. Analyses of Social Issues and Public Policy, 13(1), 1-30.
  • Fern, J. (2020). Polysecure: Attachment, Trauma and Consensual Nonmonogamy. Thorntree Press LLC.
  • Major, B., & O’Brien, L. T. (2005). The social psychology of stigma. Annual Review of Psychology, 56, 393–421.

L’orologio biologico: un mito da sfatare

Ancora oggi tantissime donne quando immaginano il proprio futuro, fin da bambinЗ, contemplano la genitorialità come aspetto – e talvolta obiettivo – centrale nella propria vita. 

Anche se negli ultimi anni il desiderio di genitorialità ha lasciato spazio ad altri aspetti della vita, quali ad esempio lo studio, la carriera, la soddisfazione personale ecc., moltissime donne sentono ancora la pressione di «riuscire a sistemarsi e a fare un figlio entro i 35 anni». 

Questa preoccupazione spesso sottende una credenza che prende il nome di “orologio biologico”.

Esattamente l’orologio biologico che cos’è?

Comunemente con “orologio biologico” ci si riferisce al fatto che la fertilità femminile non è perenne e che, ad un certo punto, la possibilità di avere unǝ figliǝ si riduce notevolmente. 

Dal punto di vista biologico, in effetti, la fertilità declina con il passare del tempo  – oltre una certa età – è molto più difficile riuscire a concepire unǝ figliǝ.

La questione dell’orologio biologico – come comunemente inteso a livello culturale – però è più complessa rispetto al mero piano biologico e sottende degli importanti elementi di pregiudizio e discriminazione.

Moira Weigel, nel suo libro “Labor of Love: the invention of dating”, analizza il concetto di orologio biologico partendo dalla sua origine. 

Originariamente questo termine si utilizzava in ambito scientifico e si riferiva ai ritmi circadiani di sonno veglia. Esso è stato estrapolato dall’ambito scientifico ed è stato associato per la prima volta al tema della fertilità femminile solo nel 1978, in un articolo del Washington Post scritto da un opinionista, Richard Cohen.

Questa definizione di orologio biologico – ovvero il fatto che la fertilità femminile ha una data di scadenza a breve termine – si è diffusa velocemente nell’opinione pubblica, radicandosi nella nostra cultura. 

Ancora oggi, infatti, la fertilità delle persone socializzate femmine viene accostata all’orologio biologico e a essa sono associate diverse credenze, spesso errate. 

Photo by Timothy Meinberg on Unsplash

A tal proposito la psicologa Jean M. Twenge, in un articolo del 2013, ha mostrato che queste statistiche derivano da uno studio del 2004 che si basa su dati riguardanti le nascite in Francia raccolti tra il 1670 e il 1830, dunque non rappresentativi rispetto alla possibilità di essere fertili o meno nel contesto sociale attuale. Secondo Twenge questo è uno degli esempi più spettacolari di come i media possano fallire nell’interpretare e riportare i dati delle ricerche scientifiche.
«In altre parole, a milioni di donne viene detto quando dovrebbero rimanere incinta basandosi su statistiche di un periodo precedente a elettricità, antibiotici e trattamenti per la fertilità» (Twenge)

Con questo articolo non si vuole mettere in discussione l’incidenza dell’età sulle possibilità riproduttive, si riconosce infatti che vi sono ampie evidenze scientifiche a supporto della correlazione tra aumento di età e declino di fertilità.

Ciò che risulta interessante però è che a fronte di un’equa incidenza di infertilità e una simile diminuzione di fertilità di tutti i generi in relazione all’età, il concetto di orologio biologico sia associato solo al genere femminile, senza prendere in esame la condizione maschile.
A tal proposito si riporta quanto scritto da Moira Weigel in un suo articolo sul The Guardian:«la storia dell’orologio biologico è una storia riguardante scienza e sessismo». Secondo l’autrice è infatti evidente come le assunzioni riguardanti il genere possano strumentalizzare la divulgazione delle ricerche scientifiche per servire fini sessisti.

Come mai il declino della fertilità, a livello culturale, è solo una questione femminile?

Nel sopracitato articolo di Cohen pubblicato nel 1978 sul Washington Post emerge un tono critico riguardo l’emancipazione lavorativa femminile. In effetti il periodo in cui l’articolo di Cohen è stato scritto,, è proprio la fine degli anni ’70, momento in cui la presenza femminile nel mercato del lavoro statunitense è fortemente in crescita e la nuova definizione di orologio biologico ha cominciato a diffondersi e a fissarsi nella nostra cultura. 

Per comprendere la diffusione del concetto di “orologio biologico” legato alla fertilità femminile è importante sottolineare che l’ingresso delle donne nel mondo del lavoro degli anni ‘70 ha messo in discussione l’ordine sociale in quanto ha inciso direttamente sulle rappresentazioni e le prescrizioni di genere.  Secondo tale “ordine sociale”, le donne infatti si dovrebbero occupare solamente della vita privata, della casa e della famiglia, lasciando agli uomini le relazioni con il mondo esterno e il compito di procacciare le risorse per il sostentamento della famiglia (Rudman e Glick, 2010). 

Il concetto dell’orologio biologico permette di contrastare la crisi dei ruoli sociali tradizionali rinforzando una specifica pressione sociale sulle donne nei confronti del presunto desiderio istintivo di maternità, alimentando in esse il timore che potrebbero in futuro pentirsi di non aver avuto figlЗ e il senso di colpa per aver preferito la carriera alla maternità. 

Sostanzialmente l’orologio biologico diventa un’arma per contrastare gli effetti dell’emancipazione femminile.

Potremmo interpretare questi eventi come un esempio di backlash (Rudman, 1998), ovvero una forte reazione della società ai tentativi di emancipazione femminile per ristabilire lo status quo. In altre parole la società spinge verso una maggiore prescrittività del ruolo tradizionale femminile, secondo cui le donne sono fatte per essere madri e non lavoratrici, contrastando i tentativi di raggiungere l’eguaglianza di genere.

«Ci sono cose di cui noi uomini non dovremo mai preoccuparci. Come il ticchettare dell’orologio biologico. […] Qui è dove finisce la liberazione femminile» (Cohen)

Photo by Vitolda Klein on Unsplash

Come si evince dalla citazione riportata, nel suo articolo, Cohen non perde occasione per evidenziare il fatto che il discorso riguardante la fertilità sia un problema esclusivamente femminile: sono le donne a doversi preoccupare della propria fertilità e a dover progettare la propria vita, privata e lavorativa, in base alla volontà di diventare madri. Successivamente, una volta divenute madri, la maggior parte del lavoro di cura sarà a carico loro (Belotti, 1973).

Pensare che il tema della genitorialità riguardi solo ed esclusivamente le donne e non sia in alcun modo dipendente dalla volontà maschile è profondamente negativo per tutti i generi

Questo tipo di narrativa, infatti, continua a rinforzare gli stereotipi alla base del sessismo e delle differenze di genere. Le donne sono “communal” , ovvero hanno l’obiettivo di entrare in relazione con le altre persone, quindi spetterà loro il compito di occuparsi della prole; gli uomini , invece, sono “agentic”, ovvero sono focalizzati al raggiungimento dei proprio obiettivi personali e alla soddisfazione dei propri bisogni, quindi si occuperanno di lavorare e procacciare le risorse (Bakan, 1966; Fiske, Cuddy e Glick, 2007).

Gli stereotipi e le prescrizioni sociali tradizionali di genere riducono le possibilità di immaginarsi e di diventare ciò che si desidera, perseguendo i propri obiettivi. 

Ad esempio, secondo i ruoli tradizionali, alle donne non è concesso di essere competenti, competitive e assertive e agli uomini non è concesso di essere affettuosi, sensibili e poco ambiziosi. Tali stereotipi non impattano unicamente sul genere femminile e quello maschile, ma anche sulle persone non binarie che vengono invisibilizzate, invalidate e discriminate. 

In una società sessista si continuerà a considerare con sospetto un uomo che afferma la propria volontà di lasciare il lavoro per rimanere a casa ad occuparsi dellЗ propriЗ bambinЗ e si continuerà a giudicare negativamente una donna che decide di ricorrere alla sterilizzazione perché ama il proprio lavoro ed è certa che di bambinЗ non ne vorrà mai.

Sicuramente è da considerare il fatto che l’articolo di Cohen risale al 1978. Oggi molti uomini ricoprono ruoli di cura genitoriale e/o domestica e molte donne lavorano. Nonostante questo siamo molto lontanЗ dal raggiungimento della parità di genere, basti pensare alle differenze nei congedi genitoriali (10 giorni per paternità e 5 mesi per maternità) o al gender gap in ambito lavorativo (differenze salariali e tasso di disoccupazione). 

Inoltre, le pressioni sociali e i pregiudizi sessisti continuano a impattare negativamente sulle persone di ogni genere, ogni qualvolta esse decidano di distanziarsi dai ruoli tradizionali.

Letture consigliate

  • Volpato, C. (2013). Psicosociologia del maschilismo. Gius. Laterza & Figli Spa.
  • Rudman, L. A., & Glick, P. (2021). The social psychology of gender: How power and intimacy shape gender relations. Guilford Publications.
  • Belotti, E. G. (1973). Dalla parte delle bambine. Feltrinelli.

Bibliografia

  • Bakan, D. (1966). The duality of human existence: an assay on psychology and religion. Rand MacNally.
  • Belotti, E. G. (1973). Dalla parte delle bambine. Feltrinelli.
  • Cohen, R. (1978). The Clock Is Ticking For the Career Woman. The Washington Post https://www.washingtonpost.com/archive/local/1978/03/16/the-clock-is-ticking-for-the-career-woman/bd566aa8-fd7d-43da-9be9-ad025759d0a4/?utm_term=.54e1781a98d7
  • Fiske, S. T., Cuddy, A. J., & Glick, P. (2007). Universal dimensions of social cognition: Warmth and competence. Trends in cognitive sciences, Vol. 11, No. 2, 77-83.
  • Momigliano, A. (2016). L’amore ai tempi dell’orologio biologico. Rivista Studio http://www.rivistastudio.com/standard/orologio-biologico/
  • Rudman, L. A. (1998). Self-promotion as a risk factor for women: The costs and benefits of couter-stereotypical impression management. Journal of Personality and Social Psychology, 74, 629–645.
  • Rudman, L. A., & Glick, P. (2010). The social psychology of gender: How power and intimacy shape gender relations. Guilford Press
  • Twenge, J. M. (2013). How long can you wait to have a baby? The Atlantic. https://www.theatlantic.com/magazine/archive/2013/07/how-long-can-you-wait-to-have-a-baby/309374/
  • Weigel, M. (2016). The foul reign of the biological clock. The Guardian https://www.theguardian.com/society/2016/may/10/foul-reign-of-the-biological-clock

Oltre il binario: le definizioni dell’identità sessuale 

Per parlare in modo efficace della comunità LGBTQIAPK+ è fondamentale parlare di identità sessuale. È importante partire quindi dalle basi, definendo con precisione le dimensioni fondamentali per entrare con consapevolezza nel meraviglioso mondo delle Gender, Sexuality, Relationship Diversities. 

L’identità sessuale è una componente dell’identità di ogni essere umano. In letteratura è stata descritta come un costrutto multidimensionale composto da sesso biologico, identità di genere, ruolo di genere e orientamento sessuale. 

L’identità sessuale emerge dalla complessa interazione tra fattori biologici, psicologici, sociali e culturali. Essa è fluida, ovvero può cambiare nel corso della nostra vita, e può essere o meno in linea con il nostro sesso biologico, il nostro comportamento sessuale o il nostro orientamento sessuale effettivo.

Il sesso biologico come spettro

Quando parliamo di sesso biologico, solitamente pensiamo ai maschi e alla femmine. In realtà la situazione è più complessa.

A livello scientifico il sesso biologico si riferisce alle differenze fisiche tra individui maschi, femmine o intersessuali ed è definito da almeno dieci diversi marcatori biologici, come ad esempio cromosomi, gonadi,espressione genica, tipi e livelli di secrezione ormonale, ecc.

Il sesso biologico viene considerato uno spettro, ovvero una dimensione continua in cui maschi e femmine non sono divisi arbitrariamente in due categorie separate e indipendenti. Nello specifico il sesso biologico presenta quella che in statistica viene definita una distribuzione bimodale, ovvero la maggior parte delle persone ha caratteristiche sessuali esclusivamente maschili o esclusivamente femminili. A queste si aggiungono persone che si trovano al centro dello spettro, tra il sesso maschile e il sesso femminile. 

Rappresentazione grafica della distribuzione bimodale del sesso biologico in cui si evidenzia lo spazio esistente tra maschile e femminile e rappresentazione di una distribuzione binaria - errata - in cui non esiste lo spazio tra maschile e femminile e quindi non viene considerata l'intersessualità
La distribuzione bimodale comprende l’intersessualità nello spettro di sesso biologico. Il modello binario non è realmente rappresentativo della diversità sessuale umana. 

L’interesessualità è il termine ombrello usato per identificare tutte quelle persone che si trovano al centro dello spettro del sesso biologico e presentano caratteristiche sessuali che non sono esclusivamente maschili o femminili. Esistono molte forme di intersessualità, alcune di queste sono immediatamente visibili, ad esempio a causa di genitali non conformi, altre emergono solo con esami clinici specifici.

Nonostante queste evidenze, ancora oggi a livello culturale spesso si tende a considerare il sesso umano come una dimensione esclusivamente binaria composta da due gruppi differenti e separati tra loro: maschi e femmine. 

Generalmente il sesso viene assegnato alla nascita sulla base di poche caratteristiche fisiologiche, in particolare l’osservazione dei genitali e – in alcuni casi – la composizione cromosomica. Questa modalità di assegnazione può risultare parzialmente errata, se non del tutto, e reiterare un forzato binarismo sessuale in cui le persone intersessuali rischiano di subire medicalizzazioni atte a correggere ciò che culturalmente viene considerato non conforme, cioè “fuori norma”.

Quando viene assegnato  il sesso a una persona appena nata si sta anche – più o meno consapevolmente – contribuendo a costruire le aspettative su come quella persona dovrà essere e comportarsi in base al suo essere femmina o maschio, in altre parole le stiamo assegnando un genere.

Il genere: definizione, identità ed espressione

Il genere viene definito come un costrutto bio-psico-sociale in cui le diverse componenti hanno una relazione e un’interazione complessa.

Le componenti biologiche si riferiscono in particolare al funzionamento cerebrale e ormonale. Le componenti psicologiche si riferiscono a come percepiamo e sperimentiamo  il nostro genere, ovvero alla cosiddetta  identità di genere. Le componenti sociali riguardano il modo in cui percepiamo il genere a livello sociale attraverso norme, ruoli ed espressioni nelle diverse culture e nei diversi periodi storici.

Anche il  genere può essere concettualizzato, come il sesso biologico in termini di spettro e fluidità. Nel mondo esistono sia culture che considerano il genere come binario –  esistono solo uomini e donne –, sia culture che contemplano l’esistenza di più generi oltre al maschile e al femminile. 

A differenza di quanto si pensi, il genere e il sesso biologico sono due cose diverse, e non sempre coincidono. A livello culturale infatti le differenze biologiche tra i sessi sono percepite come fortemente corrispondenti a differenze di genere profonde e immutabili: ad esempio se una persona è femmina, allora è donna e sarà gentile e accogliente. Questa corrispondenza forzata viene definita in letteratura come essenzialismo psicologico e ciò comporta una percezione di genere basata unicamente sulle differenze biologiche tra maschi e femmine.

Il genere però non necessariamente corrisponde al sesso biologico della persona. Ad  esempio esistono persone assegnate “femmine” alla nascita che si riconoscono nel genere maschile o viceversa. Esistono anche persone non binarie, che non si riconoscono in nessun genere, che si riconoscono in una combinazione dei due generi, che si riconoscono in un terzo genere o in più generi.

L’identità di genere riguarda la consapevolezza intima e profonda del nostro genere, si riferisce alla percezione che abbiamo di noi stessЗ e a quanto ci sentiamo allineatЗ o meno con le caratteristiche dei diversi generi. 

L’espressione di genere invece riguarda il modo in cui presentiamo il nostro genere al mondo, ad esempio attraverso la nostra immagine estetica, i vestiti, gli atteggiamenti e molto altro. In altre parole, l’espressione di genere è parte della nostra immagine sociale e di come quest’ultima viene percepita dallЗ altrЗ in base alle norme di genere.

Non sempre abbiamo la possibilità o il desiderio di esprimere liberamente il nostro genere, ad esempio potremmo trovarci in contesti in cui non ci sentiamo sicurЗ di essere accettatЗ. Esprimere o meno l’identità di genere non impatta sulla legittimità della propria identità di genere. 

Ruoli di genere: il proprio posto nella società

Il ruolo sociale è l’insieme dei modelli di comportamento attesi, degli obblighi e delle aspettative che convergono su una persona che ricopre una determinata posizione sociale.

In una società in cui è forte e dominante il concetto di binarismo, i ruoli di genere sono i ruoli che uomini e donne dovrebbero occupare in base al loro sesso assegnato alla nascita.

I ruoli di genere sono il prodotto delle interazioni tra le persone e il loro ambiente e forniscono le indicazioni su quale sia il tipo di comportamento appropriato a seconda della propria appartenenza di genere. 

Crescendo impariamo a mettere in atto le aspettative richieste dal ruolo di genere corrispondente al genere che ci è stato assegnato. Ad esempio, il ruolo maschile prevede coraggio e intraprendenza, quindi le persone assegnate maschi alla nascita vengono incentivate affinchè diventino coraggiose e intraprendenti. Col tempo la maggior parte delle persone tendono ad adottare i tratti associati al loro genere e iniziano così a identificarsi in essi. 

Tra le varie aspettative associate al genere a livello culturale ci sono anche quelle che riguardano l’attrazione. In generale si dà per scontato che le persone siano per la maggior parte eterosessuali. L’orientamento affettivo però – come vedremo nel prossimo paragrafo – è una dimensione indipendente dal genere.

Orientamento affettivo: chi ci attrae e perchè.

L’orientamento affettivo indica verso quale genere o generi è indirizzata l’attrazione ed è il risultato dell’interazione di fattori biologici, genetici, ambientali e culturali. Anche l’orientamento affettivo è considerato una dimensione fluida e potenzialmente modificabile nel tempo.

Per attrazione si intende una forma di desiderio sperimentato nei confronti di un’altra persona, caratterizzato da un forte coinvolgimento fisico ed emotivo.

Esistono diversi tipi di attrazione: romantica, sensuale, sessuale, estetica e platonica. Ognunǝ di noi può provare nessuna, alcune o tutte le forme di attrazione nei confronti di nessuno, uno o più generi.

Parlare solo di orientamento sessuale è limitante in quanto le persone possono provare diversi tipi di attrazione nei confronti di diversi generi. Esistono ad esempio persone asessuali, che quindi non provano attrazione sessuale nei confronti di altre persone, e biromantiche, che quindi provano attrazione romantica nei confronti di persone di più generi. Esistono anche persone bisessuali, che quindi provano attrazione sessuale per persone di più generi, e omoromantiche, che quindi provano attrazione romantica solo per persone del loro stesso genere. Le combinazioni possono essere infinite.

La relazione tra le componenti dell’identità sessuale

L’identità di genere, l’espressione di genere, il sesso biologico e l’orientamento affettivo sono dimensioni indipendenti, ovvero non sono collegate tra di loro. 

L’orientamento affettivo delle persone non determina la loro espressione o il loro ruolo di genere, la loro espressione di genere non è determinata dalla loro identità di genere e la loro identità di genere non è determinata dal loro sesso biologico e così via. 

Tutte le dimensioni dell’identità sessuale possono influenzarsi, ma nessuna di queste ne determina altre.

Conoscere le componenti dell’identità sessuale e la loro reciproca interazione ci permette di comprendere meglio noi stessЗ e le altre persone, in particolare tuttЗ coloro che appartengono alla comunità LGBTQIAPK+. La consapevolezza è il primo  – fondamentale  – passo per ridurre i pregiudizi ed essere inclusivЗ.

Bibliografia

  • West, C., & Zimmerman, D. H. (1987). Doing gender. Gender & society, 1(2), 125-151.
  • Rudman, L. A., & Glick, P. (2021). The social psychology of gender: How power and intimacy shape gender relations. Guilford Publications.
  • Barker, M. J., & Iantaffi, A., (2019). Life ins’t binary: on being both, beyond, and in-between. Jessica Kingsley Publisher.

Per approfondimenti

Foto in copertina di Sharon McCutcheon su Unsplash

E se la diversità corrisponde a una disabilità?

Quando parliamo di disabilità, in particolare quelle intellettive, spesso ci viene naturale domandarci se una persona, nel momento in cui vive una condizione di diversità che porta con sé diverse difficoltà funzionali, abbia comunque la possibilità di avere una vita piena e soddisfacente. 

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L’orologio biologico ticchetta ancora?

La fertilità femminile tra ruoli sociali, false credenze e mass media

Dott.ssa Giulia Tracogna

Fin da quando ero piccola, immaginando il mio futuro, pensavo che un giorno sarei stata una mamma. Crescendo ho iniziato a preoccuparmi per qualcosa di inevitabile e terrificante: il passare del tempo. Quando a 21 anni ho deciso di cambiare università uno dei primi pensieri è stato “cavolo, ho perso due anni.. così non riuscirò a laurearmi prima dei 26”. Il retro-pensiero era uno soltanto: “devo riuscire a sistemarmi e a fare un figlio entro i 30 anni”. Non mi sono mai particolarmente soffermata sull’origine di questa paura, di questa pressione e ansia riguardo la mia “data di scadenza”, l’ho sempre attribuita al mio orologio biologico.

Tutti noi almeno una volta nella vita ne abbiamo sentito parlare, ma l’orologio biologico, esattamente, che cos’è?

Comunemente con orologio biologico ci si riferisce al fatto che la fertilità femminile non è perenne e che, ad un certo punto, la possibilità di avere un/a figlio/a si riduce notevolmente. Personalmente ho sempre pensato che quel punto fosse situato attorno ai 30-35 anni.

Un giorno però mi sono imbattuta in un articolo del Guardian in cui viene presentato un estratto del libro “Labor of Love: the invention of dating” di Moira Weigel. 

Weigel analizza il concetto di orologio biologico partendo dalla sua origine, decisamente più recente di quanto mi aspettassi. Infatti questo termine (originariamente usato in riferimento ai ritmi circadiani di sonno e veglia) è stato associato al tema della fertilità femminile solo nel 1978, in un articolo del Washington Post scritto da un opinionista, Richard Cohen. 

La nuova definizione di orologio biologico ha preso piede velocemente nell’opinione pubblica, diventando un vero e proprio topos e radicandosi nella nostra cultura. 

Ancora oggi il tema della fertilità femminile si associa all’orologio biologico e nasconde non poche insidie, talvolta sotto forma di vera e propria disinformazione. Ad esempio alcune tra le statistiche più citate sul tema fertilità indicano che una donna su tre, tra i 35 e i 39 anni, non è in grado di rimanere incinta dopo un anno di tentativi. La psicologa Jean M. Twenge, in un articolo del 2013, evidenzia come queste statistiche derivino da uno studio del 2004 che a sua volta si basa su dati riguardanti le nascite in Francia raccolti tra il 1670 e il 1830. 

Secondo Twenge questo è uno dei più spettacolari esempi di come i media possano fallire nell’interpretare e riportare correttamente i dati delle ricerche scientifiche. Diversi studi più recenti dimostrano infatti come non esistano importanti diminuzioni di fertilità almeno prima dei 40 anni.

“In altre parole, a milioni di donne viene detto quando dovrebbero rimanere incinta basandosi su statistiche di un periodo precedente a elettricità, antibiotici e trattamenti per la fertilità” (Twenge)

Secondo Weigel “la storia dell’orologio biologico è una storia riguardante scienza e sessismo”, è infatti evidente, secondo l’autrice, come le assunzioni riguardanti il genere possano strumentalizzare la divulgazione delle ricerche scientifiche per servire fini sessisti. 

La mia riflessione non vuole mettere in discussione l’incidenza dell’età sulle possibilità riproduttive, fatto reale e ampiamente dimostrato. Mi sembra molto interessante notare però che, a fronte di un’equa incidenza di infertilità ed una simile diminuzione di fertilità in relazione all’età per uomini e donne, il concetto di orologio biologico sia stato affibbiato quasi esclusivamente a noi donne senza prendere in esame la condizione maschile.

Partendo dall’origine storica di questo concetto possiamo ipotizzare come mai tutto questo sia accaduto. 

Nell’articolo di Cohen emerge spesso un tono critico riguardo l’emancipazione lavorativa femminile. In effetti il periodo in cui l’articolo di Cohen è scritto, e questo topos comincia a diffondersi, è proprio la fine degli anni ’70, momento in cui la presenza femminile nel mercato del lavoro statunitense è fortemente in crescita. 

L’ingresso delle donne nel mondo del lavoro inevitabilmente mette in crisi l’ordine sociale, in quanto incide direttamente sulle rappresentazioni e le prescrizioni di genere. Le donne infatti si dovrebbero occupare solamente della vita privata, della casa e della famiglia, lasciando agli uomini le relazioni con il mondo esterno e il compito di procacciare le risorse per il sostentamento della famiglia (Rudman e Glick, 2010). 

L’orologio biologico permette di contrastare questa crisi mettendo in guardia le donne sul fatto che prima o poi si potrebbero pentire di non aver avuto figli, sostanzialmente esso diventa un’arma per contrastare gli effetti dell’emancipazione femminile.

Potremmo interpretare questi eventi come un esempio di backlash (Rudman, 1998), ovvero una forte reazione della società ai tentativi di emancipazione femminile per ristabilire lo status quo. La società spinge verso una maggiore prescrittività del ruolo tradizionale femminile, secondo cui le donne sono fatte per essere madri e non lavoratrici, per contrastare i tentativi di raggiungere l’eguaglianza di genere.

“Ci sono cose di cui noi uomini non dovremo mai preoccuparci. Come il ticchettare dell’orologio biologico. […] Qui è dove finisce la liberazione femminile” (Cohen)

Cohen non perde occasione per evidenziare il fatto che il discorso riguardante la fertilità sia un problema esclusivamente femminile. Sono le donne a doversi preoccupare della propria fertilità e a dover progettare la propria vita, privata e lavorativa, in base alla volontà di diventare madri. 

In effetti poi, una volta divenute madri, spetterà loro tutto il lavoro di cura (Belotti, 1973).

A mio avviso pensare che il tema della genitorialità riguardi solo ed esclusivamente le donne e non sia in alcun modo dipendente dalla volontà maschile è profondamente negativo sia per le donne che per gli uomini. Questo tipo di narrative continua a rinforzare gli stereotipi alla base del sessismo e delle differenze di genere. Le donne sono “communal”  ovvero hanno l’obiettivo di entrare in connessione con gli altri, quindi spetta loro il compito di occuparsi dei figli; gli uomini sono “agentic” ovvero sono focalizzati al raggiungimento dei proprio obiettivi e alla soddisfazione dei propri bisogni, quindi si occupano di lavorare e procacciare le risorse (Bakan, 1966; Fiske, Cuddy e Glick, 2007).

Gli stereotipi e le prescrizioni sociali riducono le possibilità di immaginarsi e di diventare ciò che desidera, perseguendo i propri obiettivi. A noi donne non è concesso di essere competenti, competitive e assertive. Agli uomini non è concesso di essere affettuosi, sensibili e non ambiziosi.

Continueremo a guardare con sospetto un ragazzo che afferma la propria volontà di lasciare il lavoro per rimanere a casa ad occuparsi dei propri bambini e continueremo a giudicare male una ragazza che decide di ricorrere alla sterilizzazione perché ama il proprio lavoro ed è certa che di bambini non ne vorrà mai.

Sicuramente dobbiamo considerare il fatto che l’articolo di Cohen sia del ’78 e che ne è passata di acqua sotto i ponti. Oggi molti uomini fanno i papà, molte donne lavorano, apparentemente si potrebbe pensare che i discorsi riguardanti le differenze di genere appartengano al passato…

Eppure una delle domande che mi vengono fatte più spesso rimane “allora a quando il primo bambino? Ormai è ora!”

Inutile dire che al mio compagno viene sempre chiesto “come va il tuo lavoro? Prospettive di carriera?”.

Bibliografia