L’orologio biologico: un mito da sfatare

Ancora oggi tantissime donne quando immaginano il proprio futuro, fin da bambinЗ, contemplano la genitorialità come aspetto – e talvolta obiettivo – centrale nella propria vita. 

Anche se negli ultimi anni il desiderio di genitorialità ha lasciato spazio ad altri aspetti della vita, quali ad esempio lo studio, la carriera, la soddisfazione personale ecc., moltissime donne sentono ancora la pressione di «riuscire a sistemarsi e a fare un figlio entro i 35 anni». 

Questa preoccupazione spesso sottende una credenza che prende il nome di “orologio biologico”.

Esattamente l’orologio biologico che cos’è?

Comunemente con “orologio biologico” ci si riferisce al fatto che la fertilità femminile non è perenne e che, ad un certo punto, la possibilità di avere unǝ figliǝ si riduce notevolmente. 

Dal punto di vista biologico, in effetti, la fertilità declina con il passare del tempo  – oltre una certa età – è molto più difficile riuscire a concepire unǝ figliǝ.

La questione dell’orologio biologico – come comunemente inteso a livello culturale – però è più complessa rispetto al mero piano biologico e sottende degli importanti elementi di pregiudizio e discriminazione.

Moira Weigel, nel suo libro “Labor of Love: the invention of dating”, analizza il concetto di orologio biologico partendo dalla sua origine. 

Originariamente questo termine si utilizzava in ambito scientifico e si riferiva ai ritmi circadiani di sonno veglia. Esso è stato estrapolato dall’ambito scientifico ed è stato associato per la prima volta al tema della fertilità femminile solo nel 1978, in un articolo del Washington Post scritto da un opinionista, Richard Cohen.

Questa definizione di orologio biologico – ovvero il fatto che la fertilità femminile ha una data di scadenza a breve termine – si è diffusa velocemente nell’opinione pubblica, radicandosi nella nostra cultura. 

Ancora oggi, infatti, la fertilità delle persone socializzate femmine viene accostata all’orologio biologico e a essa sono associate diverse credenze, spesso errate. 

Photo by Timothy Meinberg on Unsplash

A tal proposito la psicologa Jean M. Twenge, in un articolo del 2013, ha mostrato che queste statistiche derivano da uno studio del 2004 che si basa su dati riguardanti le nascite in Francia raccolti tra il 1670 e il 1830, dunque non rappresentativi rispetto alla possibilità di essere fertili o meno nel contesto sociale attuale. Secondo Twenge questo è uno degli esempi più spettacolari di come i media possano fallire nell’interpretare e riportare i dati delle ricerche scientifiche.
«In altre parole, a milioni di donne viene detto quando dovrebbero rimanere incinta basandosi su statistiche di un periodo precedente a elettricità, antibiotici e trattamenti per la fertilità» (Twenge)

Con questo articolo non si vuole mettere in discussione l’incidenza dell’età sulle possibilità riproduttive, si riconosce infatti che vi sono ampie evidenze scientifiche a supporto della correlazione tra aumento di età e declino di fertilità.

Ciò che risulta interessante però è che a fronte di un’equa incidenza di infertilità e una simile diminuzione di fertilità di tutti i generi in relazione all’età, il concetto di orologio biologico sia associato solo al genere femminile, senza prendere in esame la condizione maschile.
A tal proposito si riporta quanto scritto da Moira Weigel in un suo articolo sul The Guardian:«la storia dell’orologio biologico è una storia riguardante scienza e sessismo». Secondo l’autrice è infatti evidente come le assunzioni riguardanti il genere possano strumentalizzare la divulgazione delle ricerche scientifiche per servire fini sessisti.

Come mai il declino della fertilità, a livello culturale, è solo una questione femminile?

Nel sopracitato articolo di Cohen pubblicato nel 1978 sul Washington Post emerge un tono critico riguardo l’emancipazione lavorativa femminile. In effetti il periodo in cui l’articolo di Cohen è stato scritto,, è proprio la fine degli anni ’70, momento in cui la presenza femminile nel mercato del lavoro statunitense è fortemente in crescita e la nuova definizione di orologio biologico ha cominciato a diffondersi e a fissarsi nella nostra cultura. 

Per comprendere la diffusione del concetto di “orologio biologico” legato alla fertilità femminile è importante sottolineare che l’ingresso delle donne nel mondo del lavoro degli anni ‘70 ha messo in discussione l’ordine sociale in quanto ha inciso direttamente sulle rappresentazioni e le prescrizioni di genere.  Secondo tale “ordine sociale”, le donne infatti si dovrebbero occupare solamente della vita privata, della casa e della famiglia, lasciando agli uomini le relazioni con il mondo esterno e il compito di procacciare le risorse per il sostentamento della famiglia (Rudman e Glick, 2010). 

Il concetto dell’orologio biologico permette di contrastare la crisi dei ruoli sociali tradizionali rinforzando una specifica pressione sociale sulle donne nei confronti del presunto desiderio istintivo di maternità, alimentando in esse il timore che potrebbero in futuro pentirsi di non aver avuto figlЗ e il senso di colpa per aver preferito la carriera alla maternità. 

Sostanzialmente l’orologio biologico diventa un’arma per contrastare gli effetti dell’emancipazione femminile.

Potremmo interpretare questi eventi come un esempio di backlash (Rudman, 1998), ovvero una forte reazione della società ai tentativi di emancipazione femminile per ristabilire lo status quo. In altre parole la società spinge verso una maggiore prescrittività del ruolo tradizionale femminile, secondo cui le donne sono fatte per essere madri e non lavoratrici, contrastando i tentativi di raggiungere l’eguaglianza di genere.

«Ci sono cose di cui noi uomini non dovremo mai preoccuparci. Come il ticchettare dell’orologio biologico. […] Qui è dove finisce la liberazione femminile» (Cohen)

Photo by Vitolda Klein on Unsplash

Come si evince dalla citazione riportata, nel suo articolo, Cohen non perde occasione per evidenziare il fatto che il discorso riguardante la fertilità sia un problema esclusivamente femminile: sono le donne a doversi preoccupare della propria fertilità e a dover progettare la propria vita, privata e lavorativa, in base alla volontà di diventare madri. Successivamente, una volta divenute madri, la maggior parte del lavoro di cura sarà a carico loro (Belotti, 1973).

Pensare che il tema della genitorialità riguardi solo ed esclusivamente le donne e non sia in alcun modo dipendente dalla volontà maschile è profondamente negativo per tutti i generi

Questo tipo di narrativa, infatti, continua a rinforzare gli stereotipi alla base del sessismo e delle differenze di genere. Le donne sono “communal” , ovvero hanno l’obiettivo di entrare in relazione con le altre persone, quindi spetterà loro il compito di occuparsi della prole; gli uomini , invece, sono “agentic”, ovvero sono focalizzati al raggiungimento dei proprio obiettivi personali e alla soddisfazione dei propri bisogni, quindi si occuperanno di lavorare e procacciare le risorse (Bakan, 1966; Fiske, Cuddy e Glick, 2007).

Gli stereotipi e le prescrizioni sociali tradizionali di genere riducono le possibilità di immaginarsi e di diventare ciò che si desidera, perseguendo i propri obiettivi. 

Ad esempio, secondo i ruoli tradizionali, alle donne non è concesso di essere competenti, competitive e assertive e agli uomini non è concesso di essere affettuosi, sensibili e poco ambiziosi. Tali stereotipi non impattano unicamente sul genere femminile e quello maschile, ma anche sulle persone non binarie che vengono invisibilizzate, invalidate e discriminate. 

In una società sessista si continuerà a considerare con sospetto un uomo che afferma la propria volontà di lasciare il lavoro per rimanere a casa ad occuparsi dellЗ propriЗ bambinЗ e si continuerà a giudicare negativamente una donna che decide di ricorrere alla sterilizzazione perché ama il proprio lavoro ed è certa che di bambinЗ non ne vorrà mai.

Sicuramente è da considerare il fatto che l’articolo di Cohen risale al 1978. Oggi molti uomini ricoprono ruoli di cura genitoriale e/o domestica e molte donne lavorano. Nonostante questo siamo molto lontanЗ dal raggiungimento della parità di genere, basti pensare alle differenze nei congedi genitoriali (10 giorni per paternità e 5 mesi per maternità) o al gender gap in ambito lavorativo (differenze salariali e tasso di disoccupazione). 

Inoltre, le pressioni sociali e i pregiudizi sessisti continuano a impattare negativamente sulle persone di ogni genere, ogni qualvolta esse decidano di distanziarsi dai ruoli tradizionali.

Letture consigliate

  • Volpato, C. (2013). Psicosociologia del maschilismo. Gius. Laterza & Figli Spa.
  • Rudman, L. A., & Glick, P. (2021). The social psychology of gender: How power and intimacy shape gender relations. Guilford Publications.
  • Belotti, E. G. (1973). Dalla parte delle bambine. Feltrinelli.

Bibliografia

  • Bakan, D. (1966). The duality of human existence: an assay on psychology and religion. Rand MacNally.
  • Belotti, E. G. (1973). Dalla parte delle bambine. Feltrinelli.
  • Cohen, R. (1978). The Clock Is Ticking For the Career Woman. The Washington Post https://www.washingtonpost.com/archive/local/1978/03/16/the-clock-is-ticking-for-the-career-woman/bd566aa8-fd7d-43da-9be9-ad025759d0a4/?utm_term=.54e1781a98d7
  • Fiske, S. T., Cuddy, A. J., & Glick, P. (2007). Universal dimensions of social cognition: Warmth and competence. Trends in cognitive sciences, Vol. 11, No. 2, 77-83.
  • Momigliano, A. (2016). L’amore ai tempi dell’orologio biologico. Rivista Studio http://www.rivistastudio.com/standard/orologio-biologico/
  • Rudman, L. A. (1998). Self-promotion as a risk factor for women: The costs and benefits of couter-stereotypical impression management. Journal of Personality and Social Psychology, 74, 629–645.
  • Rudman, L. A., & Glick, P. (2010). The social psychology of gender: How power and intimacy shape gender relations. Guilford Press
  • Twenge, J. M. (2013). How long can you wait to have a baby? The Atlantic. https://www.theatlantic.com/magazine/archive/2013/07/how-long-can-you-wait-to-have-a-baby/309374/
  • Weigel, M. (2016). The foul reign of the biological clock. The Guardian https://www.theguardian.com/society/2016/may/10/foul-reign-of-the-biological-clock

Buona la prima! Come giudichiamo gli altri dalle prime impressioni

Molto spesso capita di sentire opinioni di persone che affermano che il fisico non è la prima cosa che si nota o che si tiene in considerazione nella scelta del partner. Tralasciando il fatto che la scelta del partner possa essere più o meno ragionata con ipotesi più o meno oggettive, davvero non importa l’aspetto fisico? Facciamo un passo indietro. Prima di considerare se la persona che abbiamo di fronte sia un possibile candidato per essere il nostro partner, è bene incontrarla o, ancora prima, vederla. A prescindere che ci sia anche solo un’interazione verbale, prima di tutto quella persona è per noi uno stimolo visivo ricco di informazioni. Queste informazioni sono molto preziose e ci permettono a priori di farci delle impressioni, o meglio, di formulare giudizi. In altre parole: pregiudizi. Questi pregiudizi, che possono avere una valenza sia positiva che negativa, sono il frutto dell’evoluzione dell’essere umano. Per tutta la durata della lettura teniamo presente che stiamo parlando di un processo che avviene prima dell’incontro effettivo con il prossimo. Per esempio abbiamo costantemente pregiudizi anche quando si fa shopping o si va a correre. È un processo imprescindibile della natura umana.

giudizio

Facciamo un esempio. Immaginiamodi di essere un fan accanito di un partiolare cantante e di vedere in lontananza un individuo che indossa una maglietta con la faccia della star. A prescindere da quanti metri vi separano, dal momento in cui il nostro nervo ottico ha captato quell’immagine, il nostro cervello ha già giudicato quella persona in maniera positiva. Immaginiamo ora – con immenso sforzo – di essere un italiano medio e che la parte occipitale del nostro cervello – area deputata all’elaborazione visiva – abbia elaborato l’immagine di un individuo dalla pelle nera. In tempo zero avremo già generato giudizi sulla sua natura di etnia inferiore, che ci viene a togliere il lavoro, ecc… Quindi perché è importante l’informazione visiva sull’aspetto delle persone? Perché ci permette di estrapolare informazioni e, di conseguenza, generare impressioni.

Cosa sono le impressioni?

L’impressione o, più correttamente, la formazione di impressioni, è un processo attraverso il quale gli individui si creano un’immagine di altri individui singoli o in gruppi. Queste impressioni consistono in una serie di aggettivi positivi e negativi che, insieme, concorrono a una valutazione unitaria. Riprendiamo l’esempio dell’italiano medio: appena vedremo l’individuo dalla pelle nera, immediatamente faremo associazioni con aggettivi come “sporco”, “ignorante”, “ladro”, “puzzolente”, ecc… Tutti questi aggettivi sono stati richiamati dalla sola informazione visiva, ecco perché è un pre-giudizio.

Quella che è stata descritta è definita in letteratura come “teoria implicita di personalità”. Questa è uno schema – un pattern standard di elaborazione di informazioni – che permette di estrapolare una serie di aggettivi dopo averne captato anche uno solo. Immaginiamo di assistere a un’entusiasmante rimpatriata tra vecchi compagni di liceo. Tra il vociare, e le battute di basso spirito, scrutiamo in un angolo una persona che non parla con nessuno. All’istante il vostro cervello assocerà quell’immagine a un aggettivo, come “timido”. Automaticamente, da quell’aggettivo, ne estrapoliamo di altri, come un fazzoletto dal cilindro: “solitario”, “antipatico”, “asociale”, “single”, “sfigato”. In una frazione di secondo abbiamo visto una persona apparentemente timida ed elaborato la sua intera personalità seduti comodamente dal nostro tavolo.

discriminazione

Ma perché ci basiamo sulle prime impressioni se sono false?

Le prime impressioni sono statisticamente false perché si appoggiano a schemi mentali precostituiti. In altre parole estrapoliamo aggettivi in base a prototipi di individui creati dall’esperienza di vita e dalla cultura in cui siamo immersi. In una parola: stereotipi. Ecco perché le personalità implicite che elaboriamo contengono tutti aggettivi solo positivi o solo negativi. Un solo aggettivo, per esempio “timido” porta con sé una serie di aggettivi coerenti con il prototipo che noi abbiamo della persona timida ed ecco perché se vediamo una persona con la pelle nera si attivano tutti quegli aggettivi negativi. È una coerenza determinata anche dalla cultura, infatti esistono altri prototipi di personalità che in occidente non esistono. Per esempio in Cina c’è la personalità “Shi Gù”: un individuo con senso pratico, che ha il culto della famiglia, ben inserito nella società e riservato. Questi ultimi due aggettivi in occidente non hanno alcuna correlazione e risulta anche difficile immaginarsi un prototipo avente quelle due caratteristiche contemporaneamente.

Un altro motivo per cui ci basiamo sulle impressioni è che queste sono il frutto dell’evoluzione umana. La formazione di impressioni ha, infatti, due caratteristiche che la rendono un processo fondamentale per la sopravvivenza. È un processo rapido e inconsapevole che prevede un bassissimo costo energetico; solo attraverso una ricerca approfondita di informazioni – molto costosa in termini di energia e motivazione personale – è infatti possibile farsi un’idea più complessa delle persone. Riprendendo l’esempio del ristorante, per farsi un’immagine più veritiera del personaggio timido avremmo dovuto avere molta motivazione a conoscerlo ed essere disposti a focalizzare le nostre energie su di lui. Questo processo è inoltre fondamentale per pianificare il comportamento potenziale: se incontro una persona apparentemente spaventosa, avendo estrapolato una sua personalità, sarò pronto ad evitarlo, mentre se al ristorante vedo un tizio timido potrò ignorarlo perché potenzialmente non minaccioso.

Pensate ancora che tutto questo non abbia a che fare con la scelta del partner? Pensate davvero che l’essere umano si sia evoluto fidandosi delle persone brutte? È possibile ipotizzare che nella preistoria ci si mantenesse lontani da persone con un brutto aspetto perché potenzialmente minacciose. Tutto questo si ripercuote nella cultura, come ad esempio nelle storie raccontate ai bambini, con le più classiche favole che hanno come “cattivi” anche persone “brutte”.

Tutto ciò non vi convince? Per fortuna la scienza ci dà una mano.

Alexander Todorov, ricercatore dell’università di Princeton, ha scoperto come basti anche solo riprodurre determinate caratteristiche facciali su modelli 3D per far percepire questi modelli come più o meno affidabili o dominanti. In pillole, Todorov ha ricostruito alcuni pattern facciali in base ad alcune caratteristiche come la grandezza della bocca, la larghezza del naso, l’inclinazione delle sopracciglia e l’ampiezza degli occhi. La sua ricerca ha dimostrato come bastino le informazioni facciali per inferire istantaneamente – in un decimo di secondoil tratto associato. I volti ricostruiti, infatti, sono stati valutati dai partecipanti ai suoi esperimenti in termini di alta/bassa affidabilità e alta/bassa dominanza sociale.

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Fonte dell’immagine qui.

Quindi, secondo questa ricerca, esistono prototipi di visi positivi e negativi a cui più facilmente si attribuisce, per esempio, fiducia, e di conseguenza tutti gli attributi positivi che il prototipo di persona fiduciosa si porta dietro. Ecco perché ci facciamo fregare dalle apparenze. Fa parte della nostra natura, ed è un piccolo prezzo da pagare che ci portiamo dietro dalla preistoria.

Dott. Stefano Daniele Urso

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Confirmation bias: ecco perché ho sempre ragione io!

Articolo originariamente pubblicato su theWise Magazine

Risulta ben noto come l’aspetto fisico fornisca un gran numero di informazioni utili nel formare giudizi sul prossimo, ma non è tutto così rose e fiori: il processo implicato nella formazione di impressioni è lungo e irto di bias (distorsioni). Un bias fra tutti è il conservatorismo (o bias di conferma),ovvero la tendenza ad andare a caccia di prove che confermino la nostra ipotesi di partenza arrivando perfino a ignorare la presenza di informazioni discordanti.

Ogni essere umano affronta la realtà sociale in cui è immerso con delle ipotesi, o aspettative. Questo permette a tutti noi di controllare l’ambiente che ci circonda, per esempio, aspettandoci come un altro essere umano potrebbe comportarsi in determinate circostanze. In questo modo possiamo pianificare il nostro comportamento e, tecnicamente, salvare la pelle. Queste ipotesi devono però affrontare la realtà oggettiva, quella densa di informazioni falsificanti: le ipotesi di partenza che abbiamo sono infatti stereotipi preconfezionati e falsi. Immaginatevi un prototipo di immigrato: questo sarà “sporco”, “violento”, “ignorante” e “pigro”. Questa ipotesi è statisticamente falsa, perché stiamo trattando un’impressione fornita da un esemplare come l’esemplare per eccellenza della categoria, e perciò basta un solo esemplare che non fornisca quelle informazioni per far cadere tutto il castello di impressioni. Questo, però, funzionerebbe se gli esseri umani fossero dotati di un pensiero logico razionale. Cosa succederebbe dunque se assistessimo a un immigrato che aiuta una vecchietta ad attraversare la strada?

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Succede che abbiamo sempre ragione noi

Ed è qui che entra in campo il bias di conferma. Nel nostro esempio vedremmo sì un immigrato che aiuta una vecchietta ma, nonostante sia un’informazione disconfermante, avremmo l’impressione che l’immigrato in questione voglia rubarle la pensione, e magari seguirla fino a casa per occupargliela. In alternativa possiamo consideralo come unico nel suo genere: l’unico immigrato buono e generoso che si distingue dagli altri cattivi e puzzolenti. Quest’ultimo processo è definito subtyping (o creazione del sottotipo): un tipo particolare di categorizzazione che considera l’esemplare come facente parte della categoria superiore (gli immigrati) ma a sé stante, in quanto “eccezione alla regola”. Un esempio pratico sono le vecchiette che si lamentano degli stranieri perché “son tutti ladri”, fatta eccezione per il filippino che lava loro la biancheria. In questo modo la nostra idea iniziale non solo è ben protetta, ma anche rinforzata. L’ipotesi rinforzata sarà a quel punto maggiormente disponibile in memoria e ancora più resistente al cambiamento.

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Credit: happyjar.com

Ipotesi, maledette ipotesi

Come abbiamo visto, le ipotesi di partenza “guidano” il modo in cui si cercano le informazioni e come queste vengono utilizzate. Nel dettaglio, il bias di conferma interviene a due livelli: sulla ricerca di informazioni, influenzando la quantità e il tipo di informazioni che si ricercano prima di giudicare, e sull’elaborazione di informazioni, influenzandone l’interpretazione e il ricordo. La cosa affascinante è che il bias è attivo sempre e comunque, contemporaneamente su entrambi i livelli. Ha effetto, insomma, anche quando ci si attiva personalmente nella ricerca di informazioni. Per esempio, tendiamo a porre maggiormente domande volte a verificare la veridicità della nostra ipotesi (bias della domanda), oppure a sovrastimare o sottostimare l’importanza di informazioni ricevute a seconda che siano coerenti o in contraddizione con la nostra ipotesi (bias della risposta).

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Vi sembra ancora una cosa aliena e distante dalla vostra realtà “oggettiva”?

Ancora un volta la ricerca psicologica ci da una mano

In un studio classico del 1980, Lord, Ross e Lepper dell’università di Stanford hanno selezionato un campione di studenti favorevoli o contrari alla pena di morte. A questi veniva presentato un articolo scientifico fittizio contenente (nella condizione 1) evidenze empiriche sull’efficacia della pena di morte o (nella condizione 2) evidenze sulla sua inefficacia. Successivamente veniva chiesto loro di giudicare gli articoli sulla bontà dello studio, quanto i dati dello studio fossero convincenti, quale potesse essere il potere deterrente della morte e, infine, quale fosse l’atteggiamento del partecipante nei confronti della pena di morte.

I risultati mostrarono che gli articoli valutati più positivamente (e quindi ritenuti più convincenti) erano quelli in linea con l’atteggiamento di partenza. In altre parole, chi era a favore della pena di morte valutava positivamente l’articolo che portava evidenze sull’efficacia della pena di morte e viceversa; chi invece leggeva un articolo in contrasto con il proprio atteggiamento riportava errori nella composizione dell’articolo o nella sua struttura. Questo esperimento dimostra come, innanzitutto, quello descritto sia un processo naturale, e, in secondo luogo, mette in evidenza la potenza del bias. Infatti non sono le ipotesi di partenza (atteggiamento verso la pena di morte) che vengono ristrutturate in funzione di elementi falsificanti (le evidenze empiriche), ma ciò che avviene è, in realtà, l’esatto opposto. Quando i partecipanti leggevano un articolo incoerente proteggevano la loro ipotesi screditando la fonte, e questo è qualcosa che sembra altamente controintuitivo: non è il dato che cambia l’ipotesi, ma è l’ipotesi che cambia il dato.

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A questo punto sorge spontanea un’altra domanda.

Ma perché succede?

Principalmente per due motivi: il primo è che non abbiamo il controllo sul processo, il secondo è che c’è un problema di sequenzialità. Per quanto riguarda il primo punto, non ricordiamo quando è stata creata la prima impressione perché semplicemente non siamo coscienti del processo, finendo per ricordarci solo del risultato di questo processo (l’ipotesi o impressione di partenza) ma non di come esso è stato creato; ci si “aggrappa” quindi solo all’ipotesi perché è l’unica che conosciamo. Per quanto riguarda il secondo punto, bisogna tenere in considerazione che, tra tutte le informazioni che riceviamo nel tempo, le prime sono quelle che si ritengono più importanti e diagnostiche. Il problema è che, razionalmente parlando, le informazioni che vengono acquisite per prime non sono necessariamente quelle più corrette e quelle acquisite successivamente dovranno per forza di cose essere confrontate con quelle già immagazzinate in precedenza.

Che lo si voglia o meno, quindi, abbiamo sempre ragione noi. Siamo disposti ad avere ragione anche a costo di ignorare informazioni falsificanti o addirittura di inventarcele di sana pianta. Gli esempi nella vita di tutti i giorni sono infiniti, ma c’è un ambiente particolare dove tutte queste ipotesi vengono confezionate e distribuite, rese facilmente digeribili e distribuibili su grande scala.

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La fucina di ipotesi: il ruolo dei media

È proprio attraverso i media che le ipotesi si sviluppano e si espandono a macchia d’olio, sotto forma di stereotipi che vengono veicolati alla velocità della luce e fatti passare come verità assolute. Abbiamo talk show dove ognuno deve necessariamente dire la sua, in cui si chiede l’opinione a esperti che esperti non sono e al popolo che vive di rimedi della nonna. La moda di far sentire cosa pensa “la gente” porta alla conseguente espansione dei preconcetti di cui abbiamo parlato. Pensate alla facilità con cui anche il giornalismo può, consapevolmente o meno, contribuire a tutto ciò: con il bias della domanda e con quello della risposta possiamo fondamentalmente ascoltare e capire solo quello che vogliamo, quello che ci fa più comodo. Ogni giorno vengono sparate sentenze gratuite contro gli immigrati, insulti ai partiti politici della fazione opposta, notizie su false dichiarazioni, bufale e chi più ne ha più ne metta. Si può quasi pensare che, maggiore il potere di espressione che viene fornito dal mezzo, maggiore sia il grado di diffusione di stereotipi che ne consegue.

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Credit: chainsawsuit.com

Il punto però è un altro: i media forniscono sempre più opinioni e sempre meno fatti incontrovertibili e falsificanti, come ricerche e spiegazioni scientifiche degli avvenimenti. Così facendo le opinioni, molto semplici e molto spesso già indirizzate (come diceva Gaber, alla «grande confusione deviante»), vengono considerate come verità assolute, rinforzate, maggiormente ricordate e utilizzate per giudicare informazioni successive, ed ecco che abbiamo malattie terminali che si possono guarire con il bicarbonato, rettiliani al governo e, paradossalmente, una psicologia che non è più una scienza.

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Oroscopo: una stima statistica che non ci ha creduto abbastanza

Articolo originariamente pubblicato su theWise Magazine

L’oroscopo, nel senso pseudoscientifico del termine, è una «predizione che viene formulata sull’assunto che la posizione dei pianeti e dello zodiaco al momento di un evento influenzi il destino o il futuro delle persone. Viene chiamata oroscopo anche la pubblicazione di predizioni generiche sul destino individuale delle persone, classificate secondo il segno zodiacale di nascita; queste predizioni si basano sull’influenza che il passaggio dei pianeti potrebbe avere, nel periodo di tempo considerato dall’oroscopo, sulle persone nate in un determinato segno zodiacale».

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