Perché nella ricerca scientifica usiamo il termine queer?
Dare un nome alle cose serve a renderle vere. Da “invertito” a “omosessuale”, da “omosessuale” a “gay/lesbica”, fino ad arrivare a “queer”, le etichette servono alle persone per potersi identificare e trovare rappresentazioni di loro stesse, a creare alleanze e significati politici che diventano, con il tempo e l’utilizzo, importanti strumenti per il cambiamento.
Il vocabolo “Queer” viene preso in prestito dall’inglese e ha come significato originario «strano», «bizzarro». L’etimologia si rifà al tedesco “quer” che significa «diagonale», «di traverso», indica pertanto qualcosa di “deviante” rispetto a ciò che è considerato normativo. In passato, il termine è stato utilizzato come insulto per i soggetti appartenenti alla comunità LGBTQIA+, attualmente invece lo si utilizza per riferirsi alle persone che non si identificano come eterosessuali e/o cisgender, riducendo la tendenza alle rappresentazioni binarie.
Generalmente, la nostra cultura ci porta a pensare in modo binario, ovvero a costruire la realtà individuando prima una caratteristica e poi il suo opposto: amici o nemici, maschi o femmine, eterosessuale o omosessuale. Questo rende polarizzate le rappresentazioni che vengono costruite su estremi, a differenza del termine queer che va oltre la polarizzazione perché riesce a rappresentare tutte le posizioni presenti all’interno dello spettro.
La prima ad utilizzare “queer” con un significato vicino a quello attuale è stata Teresa De Lauretis, studiosa, scrittrice e docente presso l’Università della California. Nell’articolo “Queer Theory. Gay and Lesbian Sexualities”, De Lauretis voleva porre l’accento sulla problematicità della definizione “studi gay e lesbici”, impiegato per parlare degli studi svolti nell’ambito della comunità LGBTQIA+. Infatti l’uso di questa definizione ha dei limiti:
- Porta lз lettorз a percepire come una sola identità gruppi sociali diversi, lasciando supporre che questi abbiano lo stesso tipo di svantaggio sociale (es. le persone gay e lesbiche appartengono allo stesso gruppo sociale e vivono le stesse cose);
- Cancella le differenze anche all’interno della singola categoria (es. credere che tutte le persone lesbiche sperimentino le stesse cose) -;
- Non vengono considerate tutte le categorie che non rientrano nella definizione “gay” o “lesbica” (es. persone asessuali, aromantiche, non binarie ecc.), creando dei cosiddetti “scarti categoriali”.
Per tali ragioni, De Lauretis ha preferito parlare di “teoria queer” e “studi queer”, che ad oggi comprendono le riflessioni teoriche e le indagini interdisciplinari riguardanti la sessualità in ambito LGBTQIA+. Possiamo quindi considerare gli studi queer come l’ultima e più inclusiva evoluzione degli studi “gay e lesbici”.
Parlare di studi queer – e utilizzare questa terminologia – è importante perché consente di abbracciare dentro il discorso scientifico e teorico tutti i gruppi sociali considerati “devianti rispetto alla norma”, rendendo così la rappresentazione binaria del mondo diviso tra eterosessuali/omosessuali più complessa. Inoltre, il termine “queer” riesce a rappresentare le varie componenti che appartengono alla persona in modo trasversale, indicando non solo l’orientamento sessuale, ma anche l’orientamento relazionale e romantico, l’identità di genere, l’espressione di genere, rendendo multidimensionale la descrizione delle persone.
Un altro motivo per utilizzare questo termine è fronteggiare l’essenzializzazione. Esistono infatti delle categorie sociali che vengono percepite come aventi un’essenza naturale, come ad esempio “donne si nasce” o “gay si nasce”. Questo sposta l’attenzione da ciò che ha evidenziato la ricerca scientifica, ovvero che le identità sociali sono in realtà complesse formazioni socio-culturali che vengono, sin dall’infanzia, interiorizzate dall’individuo. Queste evidenze, inoltre, sottolineano la mutabilità e l’instabilità delle identità che, essendo determinate dalla propria cultura di appartenenza, possono cambiare nel corso degli anni. Pensiamo ad esempio a come si è evoluta la percezione delle donne negli ultimi decenni.
L’utilizzo di etichette per descrivere le persone fa sì che, nella nostra mente, si attivino gli stereotipi ad esse collegate. Questi sono schemi cognitivi utilizzati per categorizzare il mondo, per capire cosa aspettarci e come comportarci. Utilizziamo quindi gli stereotipi come lente principale per interpretare l’altrə e il suo comportamento, ma anche come presupposti su cui basare la nostra ricerca di informazioni.
Variabili come sesso, genere e orientamento sessuale o relazionale sono generalmente pensate come attributi binari. Inoltre, tendiamo a percepire queste variabili come immutabili, come insiemi di norme, ruoli e interessi che sono indicatori di cosa sarà e come si comporterà un individuo che possiede una di queste caratteristiche, tale meccanismo spinge fortemente verso l’essenzializzazione di quella caratteristica.
L’utilizzo del termine Queer serve quindi anche a racchiudere sotto lo stesso cappello una serie vastissima di diversità che afferiscono ad ambiti diversi della vita delle persone, che altrimenti finirebbero appiattite sotto il peso dello stereotipo.
Letture consigliate
- Vaid-Menon, A. (2020). Beyond the gender binary. New York: Penguin Workshop.
- Barker, M. J. & Iantaffi A. (2019). Life isn’t binary: on being both, beyond, and in-between. Jessica Kingsley Publishers.
Bibliografia
- Butler, Judith (1993a). Bodies That Matter: On the Discursive Limits of ‘Sex’, New York: Routledge.
- Jagose, A., & Genschel, C. (1996). Queer theory (p. 47). Melbourne: Melbourne University Press.
- Morandini, J. S., Blaszcynski, A., & Dar-Nimrod, I. (2016). Who adopts queer and pansexual identities? The Journal of Sex Research, 54(7), 911–922.
- Pustianaz, M. (2004). Studi queer. Cometa, Michele, Dizionario degli studi culturali, 441-448.
- West, C., & Zimmerman, D. H. (1987). Doing gender. Gender & society, 1(2), 125-151.
- Watson, K. (2005). Queer theory. Group analysis, 38(1), 67-81.